«Non c’è un lato oscuro della Luna, a dire il vero. È tutta buia. L’unica cosa che la fa sembrare luminosa è il Sole.»
Gerry O’Driscoll, portiere degli studi Abbey Road.
L’acme dei Pink Floyd
È così che si chiudeva The Dark Side of the Moon quando fu dato alle stampe nell’anno 1973. Giorno 1° marzo del 2023 sono esattamente 50 anni dalla data di rilascio statunitense – in terra d’Albione furono costretti ad attendere sino al 23. Ci sarebbero miriadi di obiezioni alla frase fatta che stiamo per utilizzare, ovverosia «se ne parliamo ancora oggi vuol dire che…», eppure, per quanto banale, nessuna espressione potrebbe riassumere meglio il monolito artistico che The Dark Side of the Moon è.
Nel bene e nel male, compiuto il mezzo secolo, è ancora un’opera che fa discutere, su cui si accendono dibattiti di ogni tipo, dalle misere equiparazioni ad altri dischi degli stessi Pink Floyd – per quell’immotivato istinto umano di fare classifiche –, financo al più pragmatico dei dibattiti, quello sulle vendite. A tutt’oggi, esistono schiere che vengono puntualmente colte dalla sindrome di Stendhal ogniqualvolta lo ascoltano, e altre che lo rifiutano a prescindere, poiché inossidabili sostenitori di Bourdieu: l’arte per l’arte, quand’anche – se non soprattutto – invenduta.
Ma perché The Dark Side of the Moon risulta ancora oggi un fenomeno artistico di così ampia portata? Molto rapidamente: non c’è una vera e propria risposta. Accademici, filosofi estetici e sociologi dibattono da secoli sul perché certe opere travalicano il tempo e, sul perché, anche per mera curiosità, sono esplorate da generazioni molto distanti nel tempo.
Ancora oggi esistono giovani che si approcciano ai Pink Floyd anche solo poiché hanno sentito quel titolo così iconico o hanno visto l’altrettanto iconica copertina che si richiama ad Isaac Newton – al pari, ovviamente, dell’altro grande e discussissimo classico, The Wall. Tuttavia, c’è una ragione specifica se The Dark Side of the Moon si è rivelato un instant classic più di qualsiasi altro grande – e per alcuni superiore – prodotto realizzato dai quattro: ha significato la definitiva consacrazione, attestandosi come piena immersione nel sublime, nell’avanguardismo tipico degli anni Settanta e, volendo, potremmo dire che ha catapultato la musica in una nuova èra.
I Pink Floyd prima di Dark Side
I Pink Floyd che avevano già detto addio a Syd Barrett durante i tour di The Piper and the Gates of Dawn, ritrovandoselo in due soli brani per le registrazioni di A Saucerful of Secrets, al di là delle critiche degli indefessi barrettiani che sussistono ancora oggi, stavano sempre più riscuotendo apprezzamenti in patria – e non solo. Era stata loro affidata la colonna sonora del film More, e, nel 1970, il nostro Michelangelo Antonioni commissionò loro di comporre le musiche d’accompagnamento a quel gran film che fu Zabriskie Point. Tuttavia, già nel 1969, forti probabilmente del successo che quel nuovo genere stava riscuotendo con il magico esordio dei King Crimson, anche i Pink Floyd inserirono qualche piccolo sprazzo di progressive rock all’interno del loro primo grande capolavoro post-Barrett: Ummagumma. Un disco estremo, complesso, geniale, forse non ancora pulitissimo dal punto di vista della registrazione ma, inoppugnabilmente, una pietra miliare. Ad esso seguì un album che segnò una prima consacrazione al di fuori della psichedelia più pura, Atom Heart Mother (1970); iconico a partire già da quella mucca sul prato e caratterizzato dalla presenza di un’orchestra fondamentale per l’immensa suite che coprì l’intero Lato A.
Il tour, le difficoltà di portare appresso l’orchestra, spinsero i quattro a ripiegare su un sound meno arzigogolato, servendosi di poche aggiunte esterne: nasceva Meddle (1971), un altro capolavoro spesso trascurato per via del suo ingombrante predecessore. Esso era tuttavia caratterizzato da un’altra meravigliosa suite come Echoes, da un lavoro di registrazione decisamente migliore rispetto al precedente, grazie anche all’ormai consolidata figura di Alan Parsons, nome che a qualcuno suonerà familiare. Fece seguito un altro disco un po’ sottovalutato, Obscured by Clouds, il cui sound, invero, introduce sonorità più vicine al rock che sarà distintivo dei Pink Floyd nella fase successiva (da Wish You Were Here a The Wall). Obscured, tuttavia, fu oscurato dal Live ad Pompeii, progetto multimediale nel quale i quattro si esibirono sulle rovine dell’antica città campana.
Esso, a metà tra un film, un documentario e un concerto, fu il preambolo all’ormai annunciata esplosione della band in ambito planetario. Sino a quel momento, i Pink Floyd si erano perlopiù distinti all’interno del calderone post-psichedelico e progressivo come una sorta di «anomalia»: non giocavano su virtuosismi come gli Yes o gli Emerson, Lake & Palmer, non possedevano quegli elementi barocchi contrappuntistici dei Gentle Giant o dei King Crimson, e non vivevano sulla mitologia e su un egitticismo medievaleggiante come i Genesis.
Lato A
Pulsazioni, un insieme di suoni, voci che discutono di morte e il rumore di un registratore di cassa. Tutti elementi che ci anticipano ciascuna delle altre nove composizioni presenti, e che fanno da ouverture: si tratta di Speak to Me, prima traccia del disco composta interamente da Nick Mason. L’accostamento con Revolution Number 9 tratta dal White Album, se ci riflettiamo, non è così impropria, e non solo perché gli studi di registrazione sono gli stessi.
Ad ogni modo, sul crescendo spinto dalla voce di Clare Torry – di cui più avanti parleremo –, si innesta Breathe e si fa subito chiaro uno dei leitmotiv del disco, ossia l’assenza di stacco tra i brani, i quali vogliono essere intesi come un’esperienza unica, una sequenza diversa di pennellate su un’unica tela. Breathe, composta musicalmente dal duo Gilmour/Wright, ci restituisce sin da subito l’abilità di Roger Waters come paroliere. Ci vorrà ancora qualche anno prima che questa sua superba capacità divenga tanto una delizia quanto una croce per il futuro del sodalizio.
Ad ogni modo, il bassista ci propone un’immagine che, in certo senso, diverrà un suo marchio di fabbrica: raccontare la storia di un individuo già dalla nascita, e immergerlo sin da subito nell’alienazione del mondo. Sarà così per The Wall, ma anche per i suoi album solisti. Il «respiro» di tranquillità cui fa seguito, inevitabilmente, la frenesia, la corsa, il ritorno all’alienazione, l’immersione nella musica concreta che è On the Run. Le atmosfere di Breathe, rese ancor più eteree da uno strumento che Gilmour utilizzerà parecchio per l’intero disco, la steel guitar, si fanno confuse, rapide e frenetiche nel successivo brano, il cui influsso della psichedelia è ancora parecchio preponderante, sebbene si tratti ormai di uno sguardo nella musica colta di Henry, o di Cage.
Time
La chiusura lascia un attimo l’ascoltatore in un senso di straniamento, prima che un’esplosione di sveglie ed orologi lo ridesti non senza un brivido. È il «momento» di Time. Si è discusso parecchio su quella che, seguendo anche il punto di vista di Rick Wright, potrebbe esser ritenuta una delle canzoni più «semplici da ascoltare» dell’intero disco, ma una cosa è certa: Time è uno di quei brani destinati a rimanere nel tempo, ça va sans dire, al pari di un macigno. Scritto da tutti e quattro i membri – sarà l’ultima volta in assoluto –, cantato da Gilmour e Wright, rappresenta anche la perfetta sintesi del lavoro certosino di Alan Parsons, che registrò persino gli orologi singolarmente in un negozio per poi missarli insieme.
Il testo, invero, lo si può definire come la summa perfetta dello spirito speculativo del disco: una discussione sul tempo, su tutte le sfaccettature di esso, sulle differenti percezioni, sulla sua immanenza ontologica e sulla sua percettibilità fenomenica. Benché, come vedremo adesso che siamo entrati nel clou dell’album, i testi composti si attesteranno per esser parimenti intrisi di filosofia, in Time noi troviamo tutto lo spirito, il nocciolo di quanto i quattro volessero esprimere con The Dark Side of the Moon. Peraltro, vi troviamo alcuni degli schemi tipici dei Pink Floyd – soprattutto nella già citata fase successiva – quali: cori, assoli in delay di Gilmour e un ritorno più o meno preannunciato alla forma canzone più pura, la quale prenderà il sopravvento definitivamente con The Wall.
The Great Gig in the Sky
A chiudere il lato A ci pensa The Great Gig in the Sky. Se Time rappresenta la perfetta coniugazione dello spirito dell’intero album, il brano che, in certo senso, ne costituisce una propaggine, eleva a un apice impensabile ogni suo aspetto, annichilando del tutto l’importanza del testo financo a ridurlo in una sequela di semplici vocalizzi. Clare Torry, colei che vi prestò la sua grandiosa voce, dichiarò: «Non c’è testo, parla della morte».
È lei coautrice del brano assieme a Rick Wright, ed è lei che trasportò The Great Gig in the Sky nelle aule dei tribunali. Infatti, sino al 2004, al di fuori dei ringraziamenti, il nome della donna non era menzionato tra gli autori; ella citò in giudizio la band e la casa discografica EMI e ottenne il riconoscimento dovuto. Va puntualizzato che, all’inizio, la Torry fu convinta che il risultato fosse stato pessimo, anche perché la prima registrazione fu scartata e alla terza fu lei stessa a fermarsi: si prese solo 30 sterline e andò via, scoprendo solo all’indomani della pubblicazione che il suo nome figurasse sul libretto.
Un’esecuzione magistrale, un assolo vocale soul-gospel su un tappeto psichedelico spaziale e allucinato, il quale diviene uno sguardo sul trapasso che pare addirittura anticipare le immagini distorte e sconnesse de Lo specchio di Tarkosvkij (1975). In linea con Time, la storia narrata si basa sull’angoscia esistenziale, quasi heideggeriana, in cui la sola via di fuga dinnanzi all’andar del tempo è rendersi conto di come la morte sia l’unica certezza, ed è solo mediante quella consapevolezza che noi potremo comprendere quale sia il progetto su noi stessi. Sono anche le voci di Driscoll e di altri componenti dell’équipe degli studi di Abbey Road che ce lo comunicano: «Hai paura della morte?», si chiedono vicendevolmente. Tra questi avrebbero dovuto presenziare persino Paul e Linda McCartney, i quali, però, furono giudicati troppo «commedianti» da Roger Waters che preferì rimuovere le loro voci dal missaggio finale.
Lato B
Money
Ed eccoci al più controverso tra i brani presenti: Money. Controverso per tante ragioni. Waters critica la società dei consumi, la sfrenata ricerca di danaro, l’incapacità di distaccarsi dall’attaccamento alla mondanità. Benché si possa ritenere un argomento di certo non banale, già allora appariva piuttosto «furbo»: sembrava quasi necessario per ogni grande paroliere prodigarsi in una speculazione del genere, così come lo appare adesso, sacrificando l’originalità con cui si potrebbe discutere su tematiche simili, in favore di una digressione più semplice, già a partire dal titolo.
Musicalmente, il brano è connotato dall’inconfondibile riff di basso in 7/4 che segue i registratori di cassa e il tintinnare delle monete già uditi in Speak to Me. Money risulta un po’ un passo falso, apparendoci sin troppo quadrata, progettata per essere un singolo di successo, anche al di là del suo insolito tempo; la struttura e la melodia appaiono piuttosto lineari, insipidi, senza colpi di genio come era stato per Time. È però in questo brano che fa per la prima volta capolino Dick Parry, sassofonista amico di Gilmour; egli imbraccia il suo tenore ed esegue un assolo graffiato sul tempo di 7/4, il quale conflagra nella successiva esecuzione solista alla chitarra del buon Dave, stavolta in un tempo standard di 4/4, ideale per anticipare il tappeto di organo su cui si innesta Us and Them.
Us and Them ed Any Colour You Like
Oseremmo dire pressoché all’opposto rispetto a Money, Us and Them non nasce per essere un singolo, anzi, risente parecchio del suo imprescindibile legame con l’intera impalcatura del disco. Con i suoi 72 bpm, si caratterizza per un’atmosfera eterea, ipnotica, talora sommersa nell’immagine di uno spazio infinito, quasi trascendente. Wright stiracchia gli accordi di organo all’inverosimile, e vi alterna un maliardo pianoforte risonante, su cui s’inserisce – è il caso di dirlo – il capolavoro di Dick Parry.
I due assoli di sassofono presenti sono a dir poco delle gemme; il legno è presente anche nei ritornelli, come rinforzo all’esplosione corale di cui fa parte anche Clare Torry. Waters, all’interno di questa superba nenia di otto minuti, tesse un testo pregno della sua visione politica – difatti, ricordiamo il tour politico del 2017 chiamato proprio Us + Them –, criticando aspramente «loro» (them), ovverosia coloro che appartengono alla classe dei plutocrati, coloro che guerreggiano per insulsi confini disegnati a matita, che marciano sulla povertà in cui riversiamo «noi» (us).
Un brano di una bellezza ammaliante, la cui naturale conclusione è la strumentale Any Colour You Like, la quale, in linea con alcune tendenze del prog, si caratterizza per una sequenza di improvvisazioni su pochi accordi. Ci sono tante possibili speculazioni circa il significato del brano, in virtù anche della sua assenza di parole che, però, non intacca affatto il concept alla base di Dark Side. È probabile che nell’inferenza della luce come fonte di vita, nelle sue possibili sfumature – da ciò deriverebbe inevitabilmente la copertina – soggiaccia il significato di questi fraseggi eseguiti con un synth VCS3 da Wright.
Brain Damage ed Eclipse
Il tracciato per la conclusione è però segnato. Brain Damage si apre con un delicato arpeggio di chitarra su cui Waters intona i primi versi «The lunatic is in my head». Chi è questo «pazzoide» di cui si parla? Il bassista risponde che alla base di tutto ci sia il rimpianto per la perdita di Syd Barrett, allora sparito dai radar – sarebbe riapparso nelle vite dei quattro prima di Wish You Were Here a lui dedicato –, affetto com’è ben noto da schizofrenia.
La tematica dell’infermità mentale, al pari dell’alienazione sociale, è uno dei leitmotiv che ha maggiormente contraddistinto i Pink Floyd, anche da solisti – pensiamo a Breaktrough di Rick Wright, o a Radio K.A.O.S. di Waters. L’essere infermi mentalmente, il non appartenere alla sedicente «normalità», l’immagine nietzscheana della «stella lucente» partorita da un caos interno… sono tutte raffigurazioni chiare ed evidenti nella narrativa floydiana, e in Brain Damage appaiono quasi abbracciate, amate, anche grazie al ritornello esplosivo, scritto interamente su accordi maggiori. È peraltro in questo brano che udiamo «I see you on the dark side of the Moon», unica volta in cui è menzionato il titolo dell’ellepì.
«Tutto ciò che fai, tutto ciò che ti circonda sotto il Sole è in sintonia, ma il Sole è eclissato dalla Luna», è il verso con cui si conclude questa lunga cavalcata. Eclipse, l’ultimo brano, in salsa platonica, vuol fare quasi intendere come l’umanità sia l’assenza di luce, l’esclusione dell’anima del mondo. È questa una delle interpretazioni date da determinati critici, basandosi perlopiù sul gusto per il paradosso che possiedono questo testo e la già citata frase di Driscoll che chiude l’intera opera sul riaffiorare delle pulsazioni con cui avevamo iniziato. Eclipse si inserisce su Brain Damage come la sua perfetta continuazione, ed è per questo che in molti ne hanno individuato un significato nichilista, quasi antitetico rispetto all’atmosfera che il brano sembra possedere.
Considerazioni finali
Non è difficile capire il perché difficilmente The Dark Side of the Moon potrà finire prima o poi nel dimenticatoio. È probabile che ci ritroveremo nuovamente qui fra dieci anni a decantarne l’immutato alone mitico per il suo sessantenario, così come oggi ne festeggiamo il mezzo secolo. Un disco epocale, forse non perfettamente riuscito come alcuni suoi predecessori, ma che consacra i Pink Floyd a livello planetario, e che, in quel momento, permise un enorme balzo in avanti alla musica.
Possa essere a ragione o torto ritenuto il più bello tra i dischi realizzati dal quartetto londinese, ne è indubitabilmente il più rappresentativo, come lo fu Sgt. Pepper¸ ed è quello che trasduce appieno gli intenti narrativi ed avanguardistici della band, consegnandoci il Floydian sound di più immediata riconoscibilità. Come per il citato successo beatlesiano, potremmo benissimo dire che The Dark Side of the Moon è tutto ciò che i Pink Floyd sono, sono stati e saranno, nel bene e nel male.
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