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David Bowie – “The Man Who Sold the World”, 50 anni dopo

today3 Novembre 2020 818

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C’è quel riff inconfondibile che introduce il singolo, c’è quella copertina che ci presenta un David Bowie già immerso appieno nel fenomeno web, e c’è un cinquantennio di tempo che ci separa da The Man Who Sold the World. Accolto tiepidamente e riscoperto negli anni, il terzo album di David Robert Jones, sebbene non possa essere paragonabile alla maestosità dei dischi che caratterizzarono il decennio dell’artista britannico, ne rappresenta il primo vero capitolo: ne introduce, in buona sostanza, tutto quello che sarebbe stato il glam-rock in sé.

David Bowie
Photo credit: WEB

A conferma di quanto scritto poc’anzi, The Man Who Sold the World è il primo album a presentare diversi componenti della futura formazione nota come Spiders from Mars, la quale accompagnerà David Bowie durante i fasti glam di Ziggy Stardust, Aladdin Sane e Pin Ups. Mick Ronson e Tony Visconti, rispettivamente alla chitarra e al basso, accompagneranno il cantautore in svariate formazioni; Visconti, peraltro, sarà anche produttore di Blackstar, l’ultimo disco realizzato da David Bowie nel 2016.

Non ancora ragni da Marte

Ronson, prima ancora di divenire una parte fondamentale dell’act di Bowie – mimando delle fellatio con la chitarra durante i tour di Ziggy -, introdusse degli arrangiamenti molto più cupi e aggressivi, grazie a delle sferraglianti distorsioni vicino al nascente hard-rock. Bowie, da par suo, si disse ispirato dai Cream, portabandiera del british blues e antesignani dell’hard-rock, pertanto gli richiese un sound più duro, in netta contrapposizione alle atmosfere “fiabesche” e folk dei primi due album. A corollario, le vicende personali vissute da Bowie in quel periodo, contribuirono a una stesura più intimista e, a tratti, nichilista dei testi. L’artista, infatti, oltre ad aver perso da poco il padre, veniva dalla chiusura della relazione con Hermione, sua fidanzata dell’epoca e, nondimeno, visitava spesso il fratellastro Terry, nello stesso periodo messo in cura presso un istituto d’igiene mentale.

The Man Who Sold the World – Lato A

« In un angolo del mattino nel passato
Stavo seduto a biasimare il primo e ultimo maestro
».

The Width of a Circle

The Width of a Circle, brano di apertura, oltre ad essere un perfetto apripista, è anche l’ideale collegamento con il precedente Space Oddity, con cui condivide una critica aperta verso il “si fa così” imposto dai maestri, o “guru”. A farla da padrone, nell’oscurità di un testo di chiara matrice nietzscheana, oltre a dei passaggi onirici che fungono come delle chiare allusioni filosofiche, si inizia a intravedere l’ambiguità sessuale che caratterizzerà il Bowie del periodo di Hunky Dory e di Ziggy. L’autore, tra i fraseggi di Ronson, si ritrova a fantasticare su dei rapporti omosessuali. La schizofrenia del fratellastro Terry, di cui Bowie si fa carico e portavoce, diventa la base preponderante dalla quale affiorano le paturnie dello stesso artista, anch’egli – seppur mai chiarito – affetto da simili disturbi.

David Bowie
Photo credit: WEB

David Bowie inventa l’industrial… vent’anni prima

All the Madmen, secondo brano del Lato A, è forse la prova più tangibile della lungimiranza del giovane Bowie. Sotto certi aspetti, tale brano è seminale per la nascita di generi futuri quali il noise, l’industrial e persino il goth – così come dichiarato da Trent Reznor e Siouxsie Sioux -. L’atmosfera è quasi da film horror, con una discesa immaginifica negli inferi di un ospedale psichiatrico.

Siamo ben lontani dagli istituti odierni, e, negli anni Sessanta e Settanta, a pensare alla lobotomia come a una cura pedissequa ad altre, non si faceva poi chissà quale grande crimine. Bowie raccontava della clinica dove suo fratello Terry era stato curato nel 1967, definendola grigia e fredda. L’artista, però, proseguendo sulla scia anti-estabilishment del precedente brano, ribalta la convenzione sociale che discerne le persone “sane” dalle “insane”, parlando di un mondo dove a essere rinchiusi sono gli uomini sani, cui la società ha deciso a priori di non concedere una libertà comunitaria a tutti.

David Bowie e le paranoie suburbane

Black Country Rock, sebbene sia considerata da molti un’aggiunta “svogliata” – come dichiarato anche da Tony Visconti – proprio per il suo testo minimale e per i suoi gorgheggi elettrici alla Marc Bolan, si caratterizza per un’atmosfera buia, oscura e imperscrutabile che lo tramuta in un passaggio fondamentale nel racconto. Il perfetto preambolo ad After All, un brano paranoico, grigio come la suburbia di cui Bowie amava parlare nei suoi primi anni. Da molti considerata la gemma nascosta dell’album, After All potrebbe altresì essere considerata come un’altra pietra angolare verso il mondo urbano che troverà il massimo esponente nel più grande sodale e seguace del britannico: Lou Reed.

David Bowie
Photo credit: WEB

The Man Who Sold the World – Lato B

David Bowie e l’antimilitarismo

Se fino ad ora i testi sono stati oscuri e aperti a varie interpretazioni, con Running Gun Blues, Bowie non fa sconti. Si immedesima in un veterano del Vietnam colpito da nevrosi da guerra che la sera si trasforma in un feroce serial killer. Per certi versi, con questo brano schizofrenico – riesce egregiamente ad alternare un folk dylaniano, un cantato a tratti grottesco e metriche antesignane dell’heavy metal – Bowie precederà alcune tematiche tipiche del cinema hollywoodiano di metà decennio: l’alienazione, la nevrosi da guerra e le sue irrimediabili conseguenze.

Saviour Machine può e deve essere considerato a tutti gli effetti un brano che David Bowie mise in un angolo per tre anni e che riprese quando incise Diamond Dogs. Se la fantascienza del citato disco si apriva a un mondo futuristico orwelliano, qui, con uno dei timori tipici che affliggeva il mondo negli anni Settanta, ovverosia l’informatizzazione totale a scapito dell’essere umano, Bowie ci racconta la sua distopica visione del futuro.

Lo strappo glam

Molto più dura e spietata è She Shook Me Cold, dove a farla da padrone è Mick Ronson, autore dell’arrangiamento ancor più di David Bowie. E’ qui che si percepisce il passaggio definitivo dell’autore al glam: un continuo rimando alla sessualità compulsiva, trattata con ironia dissacrante e salace. Un preludio a quanto sarà presente su Hunky Dory.

« Ero molto sveglio
Ho spezzato i cuori gentili di molte giovani vergini…
[…]
Poi lei ha preso la mia testa, l’ha distrutta completamente
Ha fatto salire il mio giovane sangue al cervello…
»

She Shook Me Cold

La Title track

Ci siamo, siamo arrivati alla title track. Indubbiamente il secondo singolo di successo dell’artista – dopo Space Oddity, ovviamente – ma, con un po’ di licenziosità, potremmo definirlo il primo. A Space Oddity, infatti, per divenire un classico intramontabile occorse la riedizione in video del 1972, mentre, sebbene The Man Who Sold the World fu accolto tiepidamente come tutto l’album, fece sì che David Bowie entrasse nel novero degli artisti da tenere d’occhio. Il testo oscuro, sinistro e parecchio cupo, si apriva già allora a diverse interpretazioni, e l’artista, da par suo, ci ha messo ben ventisette anni per rivelarne il significato.

« Penso di averla scritta perché c’era una parte di me che stavo ancora cercando… per me quella canzone ha sempre esemplificato lo stato d’animo che si prova quando si è giovani, quando ci si rende conto che c’è una parte di noi che non siamo ancora riusciti a mettere insieme, c’è questa grande ricerca, un gran bisogno di comprendere realmente chi siamo ».

David Bowie

La cover più degna

Penultima traccia di un disco che porta il suo nome, The Man Who Sold the World esemplifica appieno lo stile di questo disco. Elegante e raffinata, ma cupa e violenta allo stesso tempo. Un brano che ha trovato anche in Kurt Cobain un estimatore. Ci ricordiamo tutti la superba cover eseguita dai Nirvana durante l’Mtv Unplugged del 1993, per la quale David Bowie ha speso tali parole: «Sono rimasto semplicemente sbalordito quando ho scoperto che a Kurt Cobain piacevano i miei lavori, ho sempre voluto parlare con lui a proposito delle ragioni per cui aveva fatto una cover di The Man Who Sold the World… è stata una buona interpretazione e mi è sembrata in qualche modo molto onesta. Sarebbe stato bello lavorare con lui, ma anche solo parlare con lui sarebbe stato davvero fantastico».

The Supermen, ultima traccia di questo disco, con una serie di rimandi fantascientifici e onirici, è il perfetto omaggio di David Bowie a Nietzsche, punto cardine nella scrittura dei suoi testi in questa parte della carriera. L’affrontare il tema del superuomo, in un contesto più moderno, a trent’anni dallo scoppio del Secondo Conflitto Mondiale, spinse Bowie a studiare le correlazioni tra lo Übermensch nietzscheano e l’homo superior nazista – ricordiamo che nel Mein Kampf, Hitler affermò di ispirarsi alle teorie del medesimo filosofo -. Nonostante, in quel periodo, David Bowie si disse straziato dal nazismo, ci piace ricordare come uno degli eventi scatenanti della sua superba trilogia berlinese – il trittico di album Low, Heroes e Lodger – fu un’intervista in cui lodò Hitler in quanto “prima vera rockstar della storia”.

The Man Who Sold the World non invecchia, bensì migliora

The Man Who Sold the World non sarà mai considerato al pari di Hunky Dory, del dittico di Ziggy, di 1.Outside o della trilogia berlinese. Seppure con il tempo abbiamo imparato a guardarlo diversamente, apprezzandone la narrativa e la spasmodica ricerca, pecca senza dubbio per la mancanza di singoli-traino – pressoché all’opposto di Hunky Dory che ne è intriso -. Eppure, poiché il tempo è galantuomo, a cinquant’anni e svariati ascolti di distanza, pare sempre più migliorare. Ed è forse questo che riesce a renderlo un evergreen: essere come il vino rosso. The Man Who Sold the World non invecchia, bensì migliora.

Scritto da: Manuel Di Maggio


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