Non voleva che il maestro delle sei corde si unisse al suo terzetto poiché, quelli che in futuro sarebbero semplicemente stati gli EL&P, nella sua mente, dovevano essere un gruppo focalizzato sulle sue mirabolanti imprese alla tastiera. Questa storia, confermata diverse volte dai tre membri della band, anche per via della morte di Jimi, avvenuta il 18 settembre del 1970, è da sempre considerata sia la descrizione perfetta del carattere “particolare” di Emerson, sia anche l’esemplificazione di che atmosfera si respirasse alla fine degli anni ’60. Oggi sarebbe impensabile non reclutare un chitarrista per un gruppo, tanto meno se quel chitarrista fosse il dio della chitarra, all’epoca già considerato un mito. Per fare un esempio, è come se i Keane, band anch’essa con delle tastiere preponderanti, agli albori della loro formazione, avessero rifiutato di suonare assieme a un David Gilmour, da poco uscito dai Pink Floyd. Oggi è impensabile, è vero, ma allora era piuttosto normale. Emerson, oltre a dilettarsi in arabeschi e arzigogoli sull’Hammond e sul piano a coda, fu anche uno dei primi a sperimentare il Moog, il primo sintetizzatore digitale. Quando quella volta lo portò con sé a un concerto – non si limitò alla versione “mini” bensì si caricò direttamente quella completa, grande quanto un armadio – , si era ancora ben lontani dagli anni ’80, quando i synth sarebbero diventati come il pane quotidiano. Perché se da un lato c’erano i vari Rick Wright e Tony Banks, portabandiera di quelle nuove tastiere digitali, dall’altro c’erano anche le prime batterie elettroniche, con Phil Collins e Bill Bruford in prima linea. La batteria non aveva certo la stessa risonanza della tastiera all’epoca e, per certi versi, non la mantenne neppure nel decennio successivo, infatti, se gli anni ’80 spremettero più che poterono i synth digitali, viceversa, con le batterie elettroniche, come si diceva allora, «chiunque poteva suonare». Dieci anni di elettronica, spesso di bassa qualità, figlia di Mtv e delle discoteche, a cosa potevano portare?
Be’, dopo tutto quel sound digitale e ovattato, era quasi inevitabile che prima o poi si sarebbe ritornati a suonare «per davvero», ma intendiamoci, con ciò non si vuole mettere alla berlina tutta la produzione degli anni ’80, tutt’oggi piena di seguaci, bensì si vuole precisare che l’eccessivo ripetersi di quegli stilemi, portò il pubblico a stufarsi ben presto del cosiddetto synth pop. E se da un lato la rivoluzione attuata a Seattle – di cui abbiamo parlato la settimana scorsa – fu di stampo “grunge”, con il punk e il metal a farla da portavoce, soprattutto negli ambiti “alternativi”, il pubblico medio si riaffacciò nella nazione che per prima modificò l’immagine del rock negli anni ’60: l’Inghilterra.
C’è da fare una precisazione. Se il sound “grunge” di Seattle era innovativo perché rivisitava le caratteristiche del punk o del metal, il suo contemporaneo inglese non lo era quasi per niente, anzi, secondo molti critici, la musica cosiddetta “britpop”, è quella che in Gran Bretagna si era sempre fatta, sin dalla dissoluzione dei Beatles. Del resto ci ricordiamo tutti i vari tentativi di emulare il quartetto di Liverpool sorti negli anni successivi, a cominciare dai Badfinger, nati ancora prima dello scioglimento dei “fab four”, in un’epoca in cui essi stavano cominciando ad avvicinarsi alla psichedelia uscendo fuori dalla loro immagine da bravi figlioli della middle class.
Quello che un tempo era il “Merseybeat” si era sempre più evoluto sino a trasformarsi nel “britpop”. E se è vero che era «l’unico rock che gli inglesi conoscevano», c’è da dire che per diversi anni rimase confinato al mondo dell’indie. Per ottenere un certo successo oltre Manica gli occorreva un cosiddetto “crac”, un’esplosione. Come per il grunge che necessitò di “Nevermind” dei Nirvana e di “Ten” dei Pearl Jam.
Se è vero che il motivo principale per il quale la musica inglese salì alla ribalta fu per l’ascesa dell’indie all’interno delle classifiche di un certo livello, il momento in cui venne segnato un prima e un dopo nelle isole Britanniche fu quando un quintetto di Manchester, capitanato da Liam e Noel, i fratelli Gallagher, diede alla luce “(What’s the Story) Morning Glory?”.
Un disco iconico già dalla copertina che rappresenta una stretta via di Soho, uno dei più celebri quartieri di Londra, connotandosi come urbano, giovanile e frizzante già dal primo sguardo, ampiamente anticipato dalla band durante i live del precedente lavoro dove i cinque imposero quello che sarebbe stato lo stile tipico del britpop: arroganza, ironia, volgarità e insulti gratuiti. Era lo stile di Liam Gallagher, un grande frontman che poteva fregiarsi del talento compositivo di suo fratello Noel, non il più virtuoso dei chitarristi ma la musica non la fanno solo gli ipertecnici.
“Don’t Look Back in Anger”, “Some Might Say”, “Champagne Supernova” e “Wonderwall”… in quell’album c’è tutta la musica che oggi, a distanza di ventitré anni, per le strade di Camden Town, o in qualsiasi altro posto di Londra e di tutto il Regno Unito, sarà sempre portata live da un musicista. Gli Oasis, con quel loro album, diedero alla luce qualcosa di indimenticabile; imposero un «instant classic» come si dice in inglese.
Fu da allora che i vari Suede, Pulp, Travis e compagnia bella trovarono il successo dopo diversi anni di esibizioni nell’ombra. Ma ad uscire fuori meglio di tutti dall’anonimato fu la band che si stagliò come la rivale degli Oasis: i Blur di Damon Albarn e Graham Coxon.
Le nuove generazioni conosceranno Damon Albarn per essere il leader e unico membro “in carne e ossa” dei Gorillaz, ma alla fine degli anni ’90, Albarn e i suoi Blur furono per gli Oasis quello che i Rolling Stones erano stati per i Beatles – un paragone tirato così tanto in ballo da essere ormai diventato una macchietta – . Damon Albarn e Graham Coxon, amici d’infanzia, erano un po’ come Noel e Liam Gallagher, compositori di talento e con personalità spregiudicate, forse non al livello dei coevi di Manchester, ma con qualità compositive maggiori, tanto che sin dall’inizio, con Albarn alle tastiere e Coxon alla chitarra – e anche al sax e al clarinetto – , i Blur si fecero notare per un sound più levigato, più “elegante”, contrapposto ai più “ruvidi” Oasis, band che non si poteva fregiare di un vero tastierista – se non per i vari turnisti – come lo erano i Blur. I quattro dell’Essex registrarono il loro maggior capolavoro, “Parklife”, nel 1994, un anno prima del crac degli Oasis, ma fu solo dopo “Morning Glory” che i Blur cominciarono ad avere un certo seguito sulle riviste e sulle fanzine dell’epoca, fomentando quell’ipotetica rivalità che sarebbe nata di lì a poco tra le due band le quali, i primi tempi si complimentarono a vicenda stringendosi la mano in segno di amicizia per poi dare il la a tutto ciò su cui tutti i giornali volevano speculare, arroventando il clima attorno a loro con diverse interviste pregne di insulti non troppo velati. Ma la “faida” durò soltanto due anni, infatti, nel 1997, ispirati dal soggiorno in Islanda e dalle pressioni di Graham Coxon che chiedeva un’evoluzione del genere, i Blur virarono verso un alternative rock più indie e lo-fi, direzionandosi verso quella che fu una dignitosissima seconda parte di carriera conclusasi nel 2003(e ricominciata nel 2015 con “The Magic Whip”). Gli Oasis, invece, dopo lo snodo di “Morning Glory”, malgrado fosse improbabile bissare quel successo di pubblico e di critica, produssero comunque dell’ottimo materiale negli anni successivi, anche se la critica parve abbandonarli, e nel 2009 si sciolsero a causa di una delle tante liti tra i due fratelli Gallagher.
La loro eredità è comunque palpabile a tutt’oggi. In Inghilterra il britpop è un’istituzione così come lo è il boogie-rock degli Status Quo. Band e artisti come Coldplay, Stereophonics, Franz Ferdinand, Jet, Muse e Paolo Nutini, sono dichiaratamente in debito con gli inglesi degli anni ’90 e anche grazie agli USA che stanno conoscendo il genere ora – dopo averlo snobbato negli anni ’90 – , stiamo assistendo a una sorta di “Rinascimento brit”. Si sa, le mode sono cicliche.
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