Emanuele Primavera, batterista ennese riconosciuto e apprezzato in ogni dove dagli amanti del jazz, è ritornato nella sua città per presentare Around the Fiery Future, suo terzo album (edito dall’etichetta Jam/Unjam) – il secondo con l’attuale formazione sulla quale spenderemo qualche parolina più avanti -, a quattro anni di distanza da Above the Below (2020). L’uscita ufficiale del disco è avvenuta il 12 luglio e la sera prima, presso il teatro Francesco Paolo Neglia di Enna – già teatro Giuseppe Garibaldi -, il quintetto al completo (composto, oltreché da Emanuele alla batteria, da Alessandro Presti alla tromba, Nicola Caminiti al sassofono, Alessandro Lanzoni al piano e Carmelo Venuto al contrabbasso) si è reso protagonista di una performance maestosa, la quale ha permesso all’uditorio cittadino di avere un’anteprima dei brani che poi sarebbero stati presenti sul disco, opportunamente reso disponibile all’ingresso dello stabile tramite un banchetto adibito alla vendita. La serata si è indubitabilmente rivelata un successo, registrando un pienone tanto tra i posti in platea quanto sui palchi, e non sorprenderà constatare che nei paraggi del teatro, l’aria che si respirava era quella di una festa, portando sia noi intervistatori, sia gli intervistati, ad evitare troppe cerimonie nello svolgere questo compito, tant’è che l’intervista è avvenuta presso un locale, all’una di notte, davanti a una birra gelata – e non si può dire che ce ne lamentiamo, tutt’altro.
Emanuele, non si dovrebbe giudicare un libro dalla copertina, eppure, va detto, a guardare la copertina di questo disco e il titolo, risulta tutto abbastanza evocativo. Come nasce l’idea e cosa ci racconta quest’opera? Come nasce? Beh, ritengo di aver sviluppato una certa sensibilità a proposito di ciò che sta succedendo nel mondo. Nondimeno, essendo ennese, abituato, pertanto, a stare in una città che aveva le nebbia da ottobre a maggio, pensando agli ultimi quattro natali che ce li siamo vissuti con il sole, prima ancora di vedere l’infausto destino del nostro amato Lago di Pergusa, ecco, ho deciso di documentarmi – anche e soprattutto scientificamente – in merito al surriscaldamento globale, alla desertificazione, all’impotenza dell’uomo davanti a tutto questo. Per intenderci, a me piace molto la montagna, e vedere i ghiacciai ritirarsi mi ha sconvolto non poco. Vorrei citare alcune situazioni angoscianti che ho vissuto in prima persona: incendi notturni, alberi, nelle zone di Rossomanno, che cadevano nei giorni a seguire, per dieci, quindici volte al giorno… non ho potuto fare altro che riflettere sui perché e sui percome di questo nostro rovinarci da soli.
Stessa formazione di quattro anni fa. Un sodalizio ormai corroborato, potremmo dire a tutti gli effetti «degli amici»? Non posso che essere d’accordo. Anzitutto, qua abbiamo di fronte musicisti eccezionali, uno che è, per molti, il futuro del sax a livello mondiale, e lì davanti ti trovi il mio pianista preferito in Italia, e non lo definisco così soltanto io. Lui e Alessandro, il trombettista, sono vincitori storici del Top Jazz. Nicola, invece, posso dire di averlo visto crescere: suo padre lo portava ai concerti quando aveva quindici anni e lo infilavamo sempre all’interno di qualche formazione anche per fargli fare due pezzi; il Lanzo [Alessandro Lanzoni, il pianista, Ndr], da ragazzino, aveva già quattro dischi all’attivo. L’ho conosciuto che aveva quindici anni, oggi ne ha ventinove, e quando vivevo a Firenze, ricordo, feci un concerto in cui suonò pure lui, che aveva già registrato un album con Lee Konitz, e uno con Ares Tavolazzi e Walter Paoli. Addirittura! Sì. Poi Con Ares ci ho suonato anch’io per due anni, ha pure scritto le note di copertina per il mio primo disco. Quindi, in merito a questa formazione, potrei dire che mi piaceva “vincere facile”, avvalendomi di musicisti come loro che riescono a portare la musica in lidi di un certo spessore.
Questa è una domanda più audace, però saprai bene che ci sono due cose che si sogliono chiedere nelle interviste: la prima concerne le influenze. Ti dirò: sentendo il primo disco, così come dopo l’ultima traccia di questo, Warning Warming, mi ha dato tanto una sensazione fine anni Cinquanta, inizio anni Sessanta. Se posso gettare la bomba, mi ha un po’ ricordato tanto alcuni passaggi di A Love Supreme quanto, riferendomi soprattutto a Nicola, di Ornette Coleman. Emanuele Primavera: Guarda, iersera, quando stavamo arrivando qui ad Enna, discutevamo sul fatto che fosse il primo disco veramente più «suonato», più aperto, con degli spazi sonori più ampi. Poi tu hai citato Warning Warming che, per quanto mi riguarda, è un pezzo estremamente moderno, con la parte introduttiva che è indubbiamente legata a Ornette Coleman, anche se questa la potremmo ascrivere come una caratteristica ormai sempre più consolidata nell’ambito del jazz moderno. Nicola Caminiti: Le nostre influenze, invero, sono state molto eterogenee: se ascolti il primo pezzo, quando inizio il suono io è molto partenopea, come cosa. Quindi potremmo dire James Senese? Nicola Caminiti: No, proprio Gianni Celeste. Non sto scherzando. Musica neomelodica napoletana – composta perlopiù di artisti catanesi. L’inizio del mio solo su Knowledge richiama un po’ l’ambito napoletano, mentre per Lanzoni posso dirti che, in quel periodo, avendo studiato la Ballata n. 2 di Chopin, ne ha indubbiamente subìto le influenze. Emanuele Primavera: In ogni caso, quando l’ufficio stampa mi ha chiamato dicendomi «l’ho ascoltato, mi sembra più “a fuoco”, come se avessi deciso una direzione musicale». Poi, se vogliamo spaziare, alcune influenze le trovo in Thom Yorke: io lo adoro. Ma rimanendo un po’ legati al nostro ambito, non posso non citare Joni Mitchell.
La seconda di queste due domande canoniche riguarda il processo compositivo. Io sono un pigro. Sono un batterista, molto del mio tempo lo passo a suonare, tralasciando per determinati periodi la scrittura. La Jam/Unjam mi chiamò circa un anno fa chiedendomi «ma il tuo quintetto?», ed io: «esiste». Nel senso: non c’era nulla di concretamente nuovo, ma già, avendo fatto diverse date, non avevamo lesinato di testare qualche nuova composizione, ossia quelle che oggi sono Terraphilia, Warming Warning e Passages, le quali, all’epoca, ritenevamo appena delle bozze. Da lì, a dicembre, mi sono messo a scrivere e a gennaio abbiamo sfornato gli altri pezzi, tra cui uno al quale tengo tantissimo che è Shadow Dancer, con cui abbiamo aperto il concerto. Ultimamente devo dirti che questa pigrizia non la sto percependo più, anzi! Con Alessandro condividiamo questa grande passione per Gustav Mahler, e ciò mi sta dando l’opportunità di approcciarmi alla scrittura sotto un punto di vista certamente diverso, tuttavia, a prescindere da tutto, credo di non potermi definire sufficientemente metodico nel comporre. Magari per il momento… chissà. Sì, diciamo che vado un po’ a periodi. Alcune volte entro nella spirale della composizione costante, altre volte proprio no. Potrei dire che il coltivare la propria vena autoriale corrisponda all’alzarsi ogni mattina per andare in ufficio: senza una certa dedizione quotidiana, la metodicità, in sé, finisce per latitare o per non esserci affatto. Diciamo che è qualcosa che va coltivato di continuo.
Domanda un po’ più personale: avevi scritto che fosse l’undicesimo compleanno di Clara, tua figlia; undici anni fa, pertanto, ti chiedo, ti saresti mai immaginato che avresti presentato il tuo terzo disco qui, a Enna, a teatro? Beh, considera, nel mio primo disco intitolai Clara un pezzo proprio per dedicarlo a lei, allora molto piccola. Non lo abbiamo messo in scaletta, stasera, anche se, originariamente, avrebbe dovuto esserci. Undici anni fa, onestamente, non avrei mai immaginato di fare musica mia: ero un side-man, lavoravo tantissimo; fu il chitarrista che suonò nel mio primo disco – allorché mi sentì suonare il piano – a spingermi affinché componessi qualcosa di mio, sostenendo che ne avessi le abilità, e di converso, spronandomi a credere nella mia musica. Uscì, di lì a poco, quel lavoro con una formazione completamente diversa – eccezion fatta per Carmelo Venuto al contrabbasso –, con chitarra elettrica, batteria e pianoforte. Allora mi ritrovavo spesso ad ascoltare Kurt Rosenwinkel, un chitarrista pazzesco, il quale aveva pubblicato un disco, Star of Jupiter, mentre ero in viaggio di nozze, pertanto pare evidente che ne fui parecchio influenzato. Ora, senza andare troppo a ritroso, passando per Above the Below, mio secondo album, posso dire che già lì erano presenti elementi relativi all’ambiente come il brano E.T.N.A. (Energy Ticks Needs Aching), un acronimo che per un inglese potrebbe essere insensato, ma che, a mio modo di vedere, voleva significare che l’energia avesse sempre bisogno del dolore per esistere. A rivedermi oggi, conscio di questo percorso, non posso che reputarmi soddisfatto.
Episodio 5: We're all born naked and the rest is drag con Mariano Gallo aka @priscilla_drag Bentornate a tutte le favolose e sfavillanti fregne di questo luccicante podcast 💜 In questa puntata ci immergiamo nel vibrante e colorato mondo del drag, esplorando le sue radici storiche e il suo impatto sulla società contemporanea. Isotta, Chiaretta e Vera vi conducono in un viaggio attraverso il tempo, partendo dai miti del travestimento […]
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