Meddle non è il loro capolavoro, ed è ben noto, ma in una rassegna sui dischi usciti nel 1971, esso deve esserci obbligatoriamente. I Pink Floyd nel periodo di massimo splendore della formazione classica, provenienti dalle due pietre miliari Ummagumma (1969) e Atom Heart Mother (1970), unite alla superba colonna sonora realizzata sempre nel ’70 per Zabriskie Point del nostrano Antonioni, si trovarono finalmente all’apice del successo. E, contestualmente, con un lavoro tanto profondo e faticoso come Atom Heart Mother, complesso da riportare in scena, forse un po’ provati e con idee non proprio compiute, fanno un passo indietro alle loro radici blues per farne due avanti verso il loro futuro. Sfornano Meddle.
Formazione classica, per quei pochi che ancora non lo sapessero, nell’ambito floydiano significa il quartetto composto da Roger Waters e David Gilmour in qualità di menti creative, alternativamente di cantanti, e, ovviamente, di bassista e chitarrista. Il genio e la poesia del compianto Richard Wright alle tastiere – che da quest’album diventano molte – e Nick Mason alla batteria. Perché abbiamo voluto suddividere in due “fazioni” i quattro londinesi asserviti all’unica causa floydiana? Ci arriveremo a breve.
Meddle come disco di transizione
Come detto, Atom Heart Mother, con la sua lunga suite strumentale composta per orchestra, l’altrettanto complessa Alan’s Psychedelic Breakfast e Summer ’68 cantata e composta da Wright, appariva, sotto molti aspetti, un disco ambizioso, faticoso sia per la registrazione che per la messinscena. I Pink Floyd, pertanto, decisero di tagliare drasticamente gli apporti esterni, riducendo per i soli quattro membri la composizione e l’esecuzione di Meddle. Come è logico immaginare, però, tale scelta avrebbe portato il pubblico – rimpolpatosi dopo il successo dei due LP precedenti – a considerare Meddle come un disco di transizione. E, a distanza di cinquant’anni, non si può certo dire che tale pensiero sia mutato più di tanto, eppure bisogna comunque ammettere che il non essere un capolavoro, non significa che il disco sia da cestinare in toto, anzi.
Stasi compositiva
Nell’ottica odierna si tende a considerare, anche per merito delle interviste rilasciate dai membri e dai produttori, Meddle come sunto del periodo di maggiore aridità compositiva del gruppo. Si tentò in tutti i modi di riprendere la vena creativa tramite vari esperimenti, come una lavorazione separata alle composizioni per ogni singolo membro. Il tutto si tradusse, a onor del vero, con un nulla di fatto, il quale portò a un corposo lavoro di riassetto da parte del tecnico John Leckie e degli stessi Pink Floyd, i quali, da un iniziale proposito di lavorare separatamente, finirono per considerare l’album come un vero e proprio sforzo collettivo.
Tale stasi a livello compositivo, paradossalmente, portò i quattro a disperdere la connotazione psichedelica precedente in una nuova veste sperimentale, per certi versi eterea. Riferendoci alle droghe in sé psichedeliche, potremmo chiamare tale processo come il “rilascio” della tossina. Ciò lo si può benissimo notare dall’iconica copertina con il primo piano di un orecchio immerso sott’acqua. In un certo senso, è da Meddle che si inizierà a percepire proprio quel senso di “sospensione” atemporale e liquida dei Pink Floyd anni Settanta.
Lato A
One of these Days apre le danze con il suo celebre riff iniziale. Pensato inizialmente per chitarra, poiché constante di un andamento ternario aggressivo, fu poi registrato da Waters al basso, con l’ausilio del riverbero Binson di Gilmour. In tal modo, si ottenne un basso distorto, pregno e, per lunghi tratti, unico solista. “One of these days I’m going to cut you into little pieces“, rivolto al dj della BBC Jimmy Young – che Waters detestava – è l’unico verso e fu registrato da Nick Mason in falsetto, con un filtro overdrive e un dimezzamento della velocità. Il pezzo, per quanto possa apparire un semplice divertissement, raggiunse sin da subito una notorietà insperata, ottenendo anche la produzione di un videoclip. Per quanto sconnesso, vale la pena ricordare come in Italia sia celebre il suo utilizzo in veste di sigla della trasmissione calcistica Dribbling.
La penna di Waters
A Pillow of Winds, la seconda traccia, parimenti composta da Gilmour, è la perfetta antitesi alla precedente. Una ballata acustica cantata con la tipica dolcezza del chitarrista, il quale si prodiga nell’utilizzo della pedal steel. Differentemente dal precedente disco, già da questa seconda canzone possiamo vedere una crescente tendenza di Roger Waters a occuparsi interamente dei testi. Laddove in AtomHeart Mother, i tre brani in forma canzone della parte centrale erano stati scritti, composti e cantati singolarmente da tre dei membri (escluso Nick Mason), già in Meddle comincia ad emergere la vena cantautoriale di Waters – causa scatenante della rottura dopo The Final Cut -.
Inoltre, laddove One of these Days si caratterizzava per un vago sentore di paranoia metropolitana e sociale – argomento portante di future composizioni del gruppo -, A Pillow of Winds affronta temi amorosi; scelta parecchio desueta per i Pink Floyd. La dolcezza del testo, unita all’atmosfera eterea, rendono questo brano una sorta di preambolo di quanto avverrò in seguito nella successiva fase compositiva dei quattro.
You’ll Never Walk Alone
Fearless, subito dopo One of these Days e alla suite di cui parleremo tra poco, è certamente l’estratto più famoso del disco. Innanzitutto per la sua successione di accordi, suddivisa in due sezioni, una incalzante e una riflessive; entrambe volte ad alternarsi l’una con l’altra. Il brano è un crescendo di sei minuti nel cui testo Waters analizza il crescente individualismo sociale; le ambizioni, le aspirazioni della singola persona, contrapposte a una sempre meno presente comunicabilità, trovano il culmine nel celeberrimo coro da stadio finale.
Registrato durante un derby tra Liverpool ed Everton, con i tifosi dei reds che cantano You’ll Never Walk Alone di Gerry and the Pacemakers – vero inno del tifo scouse -, esso rappresenta il momento esatto in cui la massa diviene tale. Come se la gente esterna all’individuo sia un’entità priva d’importanza, che ti osserva frattanto che cammini per strada. Una gemma di testo, con un tappeto sonoro semplicemente perfetto. Un discorso sull’alienazione sociale che diverrà cardine nella carriera di Waters, il quale vivrà in prima persona una sorta di “allontanamento” dal mondo con la famosa scena dello sputo a un membro del pubblico fucina del racconto di Pink su The Wall.
Meddle apripista nel bene e nel male
San Tropez è il primo brano solista di Waters in un album dei Pink Floyd. Suona come un’affermazione forte, soprattutto se ricordiamo If, presente nel disco precedente. Tuttavia, come detto, in Atom Heart Mother, i tre brani in forma canzone erano stati scritti, composti e interpretati singolarmente da Waters, Gilmour e Wright. San Tropez, caratterizzata da un sound molto vicino al jazz – grazie anche alla formazione colta di Wright -, racconta di un’esperienza francese del bassista. Siamo ben lontani dai dissidi compositivi di The Wall e The Final Cut e non si direbbe che Wright e Gilmour soffrano la nascente vena solista del collega, al punto da registrare due meravigliosi assoli: uno di pedal steel e uno di pianoforte come chiosa.
A chiudere il lato A troviamo Seamus. Potremmo definirlo uno dei tipici riempitivi che occorre per raggiungere la durata minima. Un brano di matrice blues, memore dei primordi dei Sigma 6 – la band dalle cui ceneri nacquero i Floyd -, per quanto improbabile giacché si tratta di una composizione di Gilmour – che giunse solo nel 1967 -. Seamus è il nome di un cane appartenente a Steve Marriott, chitarrista di Humble Pie e Small Faces, il quale, lungo tutta la durata del brano, latra, ulula e abbaia. Di lui è descritto cosa faccia al tramonto, intrufolandosi in cucina. Per quanto tali peculiarità avessero caratterizzato testi floydiani già dagli anni di Syd Barrett, all’interno di un disco in cui si tenta di giungere a tematiche esistenziali, Seamus risulta a tutti gli effetti un brano insipido, per quanto cantato divinamente da Gilmour.
“Overhead the albatross“
Ecco, ci siamo finalmente arrivati. Finora non possiamo dire che Meddle ci abbia lasciati granché sorpresi. Ci è davvero sembrato un album di transizione, fatto con scarti di idee, e, in effetti, prima delle registrazioni i quattro avevano avuto parecchie difficoltà nello scrivere del materiale. Ma quando un disco presenta un lato B come Echoes, tutto svanisce. Tutto il resto diventa un corollario alla suite delle suite.
Per quanto i Pink Floyd ci avessero da tempo abituati a brani lunghi, le cosiddette suite, già da tempo, Echoes la potremmo definire la suite per antonomasia. Diversa da Atom Heart Mother giacché sprovvista di un’orchestra; meno sperimentale e lisergica di Sisyphus, ma anche gonfaloniera di quanto vedremo nei futuri album. Shine on you Crazy Diamond e le tre Pigs, Dogs e Sheeps di Animals, prenderanno a piene mani da Echoes nella loro struttura, nelle loro sperimentazioni. Tuttavia, la maestosità della seconda facciata di Meddle sarà difficilmente eguagliabile in futuro.
Echoes come passato e futuro
Si parte con il sonar. Almeno, con quello che sembrerebbe un sonar subacqueo, ma che in realtà è una nota acuta suonata al piano da Wright e filtrata da un amplificatore Leslie. Poi è il momento del tema centrale, con l’introduzione di uno dei tre principali riff di Gilmour. Egli stesso, dopo l’ouverture strumentale, si prodiga nel cantare il testo scritto da Waters. Un testo esistenziale, decisamente fuori da ogni schema musicale sino ad allora udibile nel panorama rock. Un testo che racconta di un uomo che interroga Dio, in parole povere, sul senso stesso dell’esistenza, sul perché dell’umanità. Anticipazione del futuro floydiano, in particolare di The Dark Side of the Moon. Se il progressive rock era un tentativo di esportare il rock al di fuori del concetto giovanile dal quale nasceva, possiamo certamente dire che Waters – assieme a Pete Sinfield – ne hanno rappresentato appieno l’elevazione lirica.
Echoes, però, lungo tutto l’arco dei suoi ventitré minuti, decostruisce tanto le radici blues dalle quali la band proviene, quanto le possibili divagazioni e sperimentazioni. Inoltre, poiché inizialmente era pensato come una sorta di miscellanea di composizioni a parte dei singoli membri – quasi in salsa free jazz -, esso si presenta come una commistione che svaria su ogni singolo aspetto dello spettro compositivo dei membri. Coesistono elementi di musica classica, di blues, di rock più puro e, sotto molti aspetti, sono anticipate anche le intuizioni proto-ambient di Eno e Fripp e dei loro No Pussyfooting ed Evening Star.
Successivamente alla lunga sequenza strumentale bluesy collocata a metà, con un richiamo alla suite di Atom Heart Mother, Gilmour si produce in una ripetizione di accordi di bellezza abbacinante, prima di ritornare al tema principale per poi chiudere con una riproposizione dell’ouverture. Un’ideale circolo che riassume appieno il concetto ciclico dell’esistenza, tema molto caro a Waters.
Conclusioni
Meddle non sarà certo il capolavoro dei quattro britannici, lo abbiamo appurato anche grazie al lato A, di certo non paragonabile ad Ummagumma o ad Atom Heart Mother. Eppure, la sola presenza di Echoes, la sua imperturbabile poesia, tanto nella musica quanto nell’ormai imprescindibile arte scrittoria di Waters, lo rendono indubbiamente un disco irrinunciabile per tutti gli amanti della stagione d’oro del classic rock, e non solo.
Uno degli esempi più puri dell’evasione progressive. In trasmissione abbiamo parlato del coevo Nursery Cryme dei Genesis, anch’esso simbolo del prog. Ecco, laddove i Genesis sono una band prog anni Settanta, i Pink Floyd, grazie alla “transizione” di Meddle, sono riusciti a imprimere il loro nome nella storia della musica. Perché, ammettiamolo, senza Meddle, non avremmo mai avuto The Dark Side of the Moon e Wish You Were Here. Molte delle sperimentazioni, delle tematiche e degli schemi visti in quei due dischi, nascono proprio nel nostro album del giorno.
Avviene poco spesso che una band rock inanelli una serie perfetta di album perfetti. A memoria, l’unica altra sequenza che potrebbe tornare alla mente è quella messa a segno dai Talking Heads tra Talking Heads ’77 (1977) e Remain in Light (1980). Tuttavia, quanto prodotto dai Led Zeppelin tra il 1969 e il 1971, sotto molti aspetti, è di per sé irripetibile. I quattro dischi sfornati dai quattro britannici sono, […]
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