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Bruce Springsteen – “Letter to You”, il nuovo album del Boss

today23 Ottobre 2020 77

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Di Bruce Springsteen, su questi lidi ne abbiamo già ampiamente parlato qui, pertanto, un sonoro “e basta” potrebbe anche essere lecito. Tuttavia, oggi è, come annunciato, il giorno dell’uscita di Letter to You, disco che vede, dopo sei anni, il ritorno della E Street Band al suo fianco. E’ vero, ormai non siamo più negli anni Novanta, e le reunion tra il Boss e il suo gruppo di supporto non sono così “sospirate” come l’introduzione potrebbe farle apparire, ma è sempre un piacere sentire ciò di cui sono capaci i sodali del Nostro. Uno stile inconfondibile, consolidato e corroborato, che ci fa apprezzare l’ennesimo album “incapace di invecchiare”. L’espressione più pura del rock, nella sua essenza maggiormente classica.

Bruce Springsteen
Photo credit: WEB

Bruce Springsteen e i suoi compari

Accompagnato da un documentario, Letter to You è un ritorno al mondo “roots” tipico della sua band, ben distante dall’ultimo lavoro insieme, High Hopes, nel quale primeggiavano fiati e arrangiamenti più articolati. In Letter to You ci sono tutte le caratteristiche che per anni hanno contraddistinto il sound del gruppo. Ci sono le chitarre di Little Stevie; c’è il perfetto connubio tra Roy Bittan e Charles Giordano rispettivamente al piano e all’organo; c’è quella potente e aggressiva batteria di Max Weinberg e, ormai ufficialmente, a sostituire lo zio Clarence deceduto nel 2011, c’è Jake Clemons al sassofono.

Tra ballad acustiche e la title track Letter to You

Si parte più in sordina con One Minute You’re Here, ballata mesta, con l’inconfondibile acustica di Springsteen, per poi essere subito trascinati dalla title track Letter to You. E’ Weinberg a darci il benvenuto con la sua batteria, per poi esplodere in un brano dal ritmo andante, nel tipico stile della E Street Band. Già da questo secondo pezzo, i vari membri si presentano uno alla volta, senza strafare, integrandosi perfettamente l’un l’altro. Giordano e Bittan dialogano durante l’assolo melodico di Van Zandt, il quale replica anche nella superba coda, accompagnato dalla Telecaster del Boss. Il tutto, peraltro, si conclude con uno sfumato. Da quanto tempo non sentivamo uno sfumato in un album?

Bruce Springsteen
Photo credit: WEB

Burnin’ Train, rapida e coinvolgente, riprende a piene mani dal tema dei treni e del viaggio molto caro all’artista del New Jersey, servendosi di un ritmo molto vicino al concetto stesso di treno – similmente a Downbound Train contenuta in Born in the USA -. Sentire l’organo di Giordano che apre la successiva Janey Needs a Shooter con una potenza evocativa degna di Darkness on the Edge of Town, è una sensazione che pensavamo di non poter più provare. E’ come sentirsi trascinare in un universo in cui gli anni Settanta non siano mai finiti. L’assolo di armonica a metà è una gemma. La successiva Last Man Standing, malgrado il ritmo andante, si caratterizza per un sound più malinconico, accattivante e avvolgente. Qualcosa in pieno stile The River e, in minor misura, Tunnel of Love.

Roy Bittan dà lezioni di piano

Quando si pensa alle belle introduzioni di pianoforte fatte da Roy Bittan, i brani che più saltano alla memoria sono Jungleland, Backstreets, ecc. Beh, possiamo aggiungerne altre due The Power of Prayer e House of a Thousand Guitars. La sesta traccia di questo Letter to You prosegue la linea più malinconica dettata da Last Man Standing, e, finalmente, dà più spazio al sax di Jake Clemons, finora tenuto un po’ in ombra. I paragoni con il defunto zio si sprecano, ma il nipote d’arte se la cava con un pregevole assolo di chiusura. Come detto, anche House of a Thousand Guitars è aperta magistralmente da Bittan, il quale, stavolta accompagna la voce del suo leader per tutta la prima strofa. Anche questa traccia si caratterizza per una certa malinconia, sebbene la sua melodia risulti un po’ troppo nenia, rendendolo di fatto il brano meno riuscito del disco.

Bruce Springsteen
Photo credit: WEB

Una grintosa chiusura

Rainmaker, quasi con una citazione a Western Stars, ci riporta ad atmosfere western nel suo cominciamento. Poi esplode, stavolta con l’ausilio di violini, i quali accompagnano il pezzo sino alla fine. Più ballad è la successiva If I Was the Priest, dove, con un andamento in halftime, abbiamo ancora un ritorno al periodo di Darkness on the Edge of Town e di The River, concludendo il tutto con i cori della coppia Springsteen-Patty Scialfa (sua moglie). Ghosts, molto più guitar oriented, quasi alla maniera di Magic, fa da perfetto contraltare agli ultimi e, senza dubbio, più “riflessivi” brani, con il basso di Garry Tallent che si trasforma in traino della canzone con un walking potente e onnipresente.

Molto più “country” è la penultima Song for the Orphans, aperta da un’armonica acuta e sbuffata che dialoga con Van Zandt e Bittan. Brano che, più degli altri, rispolvera la tradizione dei ritornelli “gospel” di Springsteen, con i cori di Patty Scialfa e del succitato Van Zandt. I’ll See You in My Dreams, la traccia conclusiva, è la perfetta sintesi dell’intero disco. Un brano dal ritmo andante, vicino tanto al country quanto al folk, in modo maggiore, corredato da assoli melodici di chitarra, organo e pianoforte, da cori e da un ritornello coinvolgente. Un perfetto commiato per un disco decisamente ottimo.

Photo credit: WEB

Perché Bruce Springsteen è Bruce Springsteen

In tempi come questi nei quali si è portati a pensare al rock come a una musica superata, strettamente legata al suo contesto Novecentesco, sentire dischi come Letter to You è un toccasana. E’ un album classico, ancorato alle sue radici, agli anni Settanta; eppure è come gran parte delle produzioni di Bruce Springsteen e della sua E Street Band: incapace di invecchiare. Un album che sarebbe stato benissimo nella chart di Billboard del 1975, così come sta bene in quella di oggi. E’ ben lontano dall’essere definito qualcosa di originale o di innovativo, ma Springsteen non è mai stato un inventore; è stato sempre un artista capace di comunicare a tutti, di coinvolgere, di emozionare. E oggi, con i capelli bianchi e la voce pressoché intaccata, ci riesce come sempre ha fatto. Perché gli artisti che fanno la storia del rock sono, sono stati e saranno in tanti, ma di Boss ce n’è uno solo.

Scritto da: Manuel Di Maggio


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