“In un’occasione come questa mi piace ricordare che io sarò anche il presidente, ma lui è e resta il Boss.”
Barack Obama
Lo chiamano il Boss, ha riscritto e continua a riscrivere la storia del rock da quasi cinquant’anni. Ieri ne ha fatti settantuno, pertanto, per celebrare una delle rockstar più rappresentative di questo secolo, ecco arrivare oggi la nostra monografia su Bruce Springsteen.
Bruce Springsteen fonda la E Street Band
“Ho visto il futuro del rock and roll e il suo nome è Bruce Springsteen.“
Jon Landau
Una frase che preannunciava quanto realmente sarebbe accaduto. Un giovane e scattante cantautore del New Jersey, ispirato come tanti da Bob Dylan e, prima ancora, da Woody Guthrie, armato di chitarra e armonica, iniziò a farsi apprezzare dalle sue parti quando mise su la E Street Band. Un connubio di musicisti – pressoché invariato negli anni – non tecnicamente virtuosi, ma incredibilmente in sintonia con il loro leader. O, appunto, con il loro boss. Non è ben nota l’origine di questo soprannome, ma molti, stregati dal suo innato carisma, sono convinti che fosse proprio quella la sua radice.
Little Steven Van Zandt, Roy Bittan, Max Weinberg e il grande sassofonista Clarence Clemons – una leggenda del sax nel mondo del rock -, sono i membri più riconoscibili della band cui, negli anni, si sono alternati diversi musicisti tra cui Patty Scialfa, moglie del boss, e, sporadicamente, vi hanno preso parte persino Tom Morello (Rage Agaisnt the Machine), Meat Loaf e Bonnie Tyler.
Lo scattante boss dei primi anni
Con Greetings from Asbury Park, NJ e il successivo The Wild, The Innocent & the E Street Shuffle, Bruce Springsteen riscosse un tiepido successo, accompagnato anche da due dei suoi primi classici: Blinded by the Light, contenuta nel primo album, e la maliarda New York City Serenade, presente nel secondo. Poi, però, fu la volta di Born to Run.
Tutto ciò che poteva rappresentare il primo Springsteen è contenuto in quel disco. Brani rapidi, energici, vicini al rock delle origini di Chuck Berry o Little Richard, e testi ancora più giovanili, dove si annusava ancora la voglia di stupire di quel muscoloso ragazzone del New Jersey. Un’energia che, ben presto, avrebbe fatto il paio con quella malinconia che avrebbe caratterizzato tutti i suoi anni successivi.
“La vita di una rock band dura finché guardi il pubblico e ti ci specchi. E il pubblico ti guarda e si specchia in te.“
Bruce Springsteen
The River e Nebraska
Dapprima con Darkness on the Edge of Town, superbo disco che ha l’unico difetto di ritrovarsi immerso tra due pietre miliari come il già citato Born to Run e, ovviamente, il successivo The River. Quest’ultimo è da considerarsi non solo come l’apice della carriera di Springsteen, ma, sotto certi aspetti, come la massima espressione della musica rock. Un doppio album classico, incapace di invecchiare per via della sua forte componente “roots”, legato profondamente a tutti gli schemi del rock. In esso, tra brani scattanti, schitarrate e assoli di armonica, c’è spazio per quella malinconia già esplorata precedentemente. Non va dimenticata la superba title track, forse il brano più maestoso realizzato dall’artista statunitense. Ballate trasognate, nostalgiche, perfetto antipasto al successivo e inaspettato album: Nebraska.
Siamo nel 1982, e pensare che la rockstar più influente di quel periodo possa abbandonare la band in un’epoca tanto chiassosa come fu quel decennio, è inconcepibile. Nebraska, registrato nelle campagne del New Jersey con chitarra acustica, armonica e poco altro, è da intendersi come il sussulto cantautoriale del boss. Una ribellione quasi silente in un’epoca in cui urlare è la prassi.
Born in the U.S.A. e gli stadi pieni
“Non ha mai fatto le cose che la maggior parte delle rockstar fanno. È diventato ricco e famoso ma non si è mai reso ridicolo con tutto questo successo, vero? Nessun arresto per droga, nessuna pulizia del sangue in Svizzera, e cosa più importante, non gioca nemmeno a golf. Nessuna acconciatura strana, nemmeno negli anni ’80. Niente vestitini nei videoclip, a parte quei guanti senza dita negli anni 80. Niente parti cinematografiche imbarazzanti, niente serpenti o scimmie, nessuna mostra dei suoi quadri, nessuna lite pubblica, né si è mai dato fuoco nei weekend.“
Bono
Poi fu la volta di Born in the U.S.A., il ritorno della E Street Band, stavolta con l’ausilio dei sintetizzatori, con una voglia matta di urlare la propria insofferenza verso il conservatorismo reaganiano. E’ questo il periodo dello Springsteen degli stadi pieni, tuttavia, con il successivo Tunnel of Love, più intimista e ricercato, il mito di Bruce Springsteen subì una prima battuta d’arresto, cui fecero seguito i due deludenti Human Touch e Lucky Town, entrambi registrati senza più l’ausilio della sua E Street Band.
Un boss senza subalterni
Ciononostante, se la seconda metà degli anni Ottanta segnò un primo declino dell’artista, negli anni Novanta si assistette a un tracollo, culminato con la pubblicazione di un unico album: The Ghost of Tom Joad uscito nel 1995. Sulla falsariga di Nebraska, il boss si adoperò in una rilettura in chiave folk del romanzo Furore di John Steinbeck.
Era un ritorno alla chitarra – seppur acustica – dopo che, per anni, aveva suonato campionatori e sintetizzatori per brani quali Blood Brothers, contenuta nell’omonimo documentario, per Secret Garden, contenuta nel film Jerry Maguire, e, soprattutto, per Streets of Philadelphia, contenuta nel film Philadelphia. Quest’ultima, figlia anche del periodo non proprio felice che l’artista attraversava – divorzio dalla prima moglie cui aveva dedicato Tunnel of Love – e un sostanziale inaridimento creativo, si trasformò ben presto in uno dei suoi brani di maggior successo, capace di regalargli l’Oscar per la miglior canzone.
La rinascita dopo i terribili anni Novanta
“Ho sempre cercato di misurare la distanza fra il sogno americano e la realtà americana.”
Bruce Springsteen
Fu un periodo di ricerca personale per il boss, ormai vicino alla cinquantina. Egli ritornò in New Jersey e non registrò nulla sino al 2002, sebbene, negli anni, furono rilasciate delle raccolte contenenti inediti scartati durante i decenni precedenti. Ma quando Bruce Springsteen sembrava ormai storia passata, ecco che venne alla luce The Rising.
Un album tanto personale quanto smaccatamente sociale. Come per Born in the U.S.A., anche in questo disco si poneva l’accento sulla politica di odio e di intolleranza susseguente alla strage dell’11 settembre 2001. Una rinascita artistica in tutti i sensi, così come il successivo Devils & Dust, retto soprattutto dall’ottima title track. Entrambi i dischi, finalmente, ebbero come musicisti i membri della E Street Band, ritornati a seguire il boss dopo diciotto anni.
Magic e gli anni Duemila
Dopo l’omaggio a Pete Seeger con We Shall Overcome, fu la volta di Magic, nel 2007. Senza alcun dubbio, l’album più elettrico della carriera di Bruce Springsteen, spinto soprattutto dal travolgente singolo Radio Nowhere. I successivi album: Working on a Dream, Wrecking Ball ed High Hopes, si attestano come i lavori di un mestierante ormai entrato nella sua direzione.
Ed è proprio quanto egli stesso ha raccontato. Dopo i tremendi anni Novanta, il cantautore del New Jersey, il Bob Dylan coi muscoli – come è stato sempre soprannominato -, ha ormai trovato una sua dimensione. Lo ha dichiarato all’uscita di Western Stars, lo scorso 2019.
Il Bob Dylan coi muscoli
“Le mie canzoni sono abbastanza semplici, in fin dei conti. Strofe folk, ritornelli gospel. Non ci sono trucchi.” Bruce Springsteen
Un artista che ha saputo raccontare quattro decadi. Un narratore del sociale, capace di coinvolgere schiere di fan e di seguaci nei suoi incredibili concerti, dove la parola “fine” arriva solo al termine di tre, talora quattro ore intensissime.
Bruce Springsteen è sempre stato l’eroe della gente, il cantore dei “tanti”. Colui che ha sempre dato tutto se stesso al pubblico, con quel suo sorriso e quella sua conclamata umiltà che in tanti hanno confermato. E ora, compiuti i suoi settantun anni, il boss si appresta a regalarci Letter to You, disco in uscita nell’ottobre di questo 2020. Una carriera che sembra ancora non volersi concludere. Del resto,gli emarginati, i poveri e gli ultimi avranno sempre bisogno di un portavoce, perché come cantava in The Ghost of Tom Joad: “Where there’s a fight against the blood and hatred in the air / Look for me, Mom, I’ll be there“.
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