Qualche anno fa, nel 1965, quei quattro ragazzotti coi capelli a caschetto di Liverpool stanno registrando l’album meno importante della loro discografia: A Hard Day’s Night. A nessuno importa, in realtà, perché ormai i Beatles stanno per divenire una versione inglese dei fratelli Marx; qualcosa che renderà desueta l’espressione “gallina dalle uova d’oro”. Sfruttare la beatlemania in tutte le sue sfaccettature pare esser diventato l’imperativo di quel decennio, ma poi accade qualcosa: i ragazzotti iniziano a crescere, smettono di indossare quei vestiti da gente perbene, ammettono di non sopportare il peso dell’impegno cinematografico, scoprono l’India, il raga, e – come affermato anni dopo –, scoprono gli acidi.
Ciascuno segue le proprie inclinazioni, i propri interessi, riversati proprio su quelle composizioni che divengono sempre più articolate. Quattro bambini che diventano grandi, si ribellano e, purtroppo, iniziano anche a mal sopportarsi l’un l’altro. L’apogeo della loro fase psichedelica coincide con il declino dei rapporti interni, e, conseguentemente, dà il la alla rottura definitiva. I sette anni che hanno visto nascere, crescere e affermarsi il music business, nel bene e nel male, stanno per perdere i loro gonfalonieri d’eccellenza. Basta un ultimo istante per entrare nella leggenda. Un commiato che risulti tanto controverso quanto indimenticabile: Let It Be.
“Siamo più popolari di Gesù Cristo adesso. Non so chi morirà per primo. Il Rock and Roll o il Cristianesimo. “
John Lennon
C’eravamo tanto amati
Let It Be, «lascia che sia» o «lascia che accada», non è un titolo che nasce a caso; la storia è ormai risaputa: Paul McCartney – forse l’unico membro della band che ne desiderasse la prosecuzione – tribolato da quei mesi concitati, sognò la madre che gli ripeteva di lasciar andare, di permettere alle cose di fare il proprio corso. D’altro canto, per risanare il rapporto, il futuro leader dei Wings si propose come unica guida, pronto a sfruttare la sua innata vena da songwriter. Qualcosa che non andava giù ai due «mistici» del gruppo: John Lennon e George Harrison.
Il primo, già da tempo in una relazione con colei che è – e per sempre sarà – la donna più odiata della storia della musica, Yoko Ono, era sempre più orientato verso quella che sarebbe stata la sua carriera successiva: pacifismo, politica e sperimentazione musicale, lontana dai canoni più «canzonettari» cui McCartney apparteneva.
Ricordiamo come il controverso brano Revolution N. 9 contenuto nel White Album fu inserito proprio come contraltare al brano Obladì Obladà scritto dal collega. Peraltro, nel mese di agosto del 1969, i Beatles non presenziarono a Woodstock proprio perché Lennon pretese un invito anche per la Plastic Ono Band della moglie Yoko – declinato dagli organizzatori –.
“Il mondo non è perfetto. In un mondo perfetto Mark Chapman avrebbe ucciso Yoko Ono, non John Lennon. “
Daniele Luttazzi
George Harrison, dal canto suo, sempre più legato all’India, armato del suo sitar e delle sue liriche più eteree e astratte, faticava a sopportare l’ostracismo del duo Lennon-McCartney nei confronti delle sue canzoni – tanto che il suo disco solista All Things Must Pass constava di ben trenta canzoni, alcune delle quali scartate proprio dai suoi vecchi sodali –. Harrison lasciò per un breve tempo il gruppo, meditando di formare una nuova band con il suo amico slowhand Eric Clapton, con il quale aveva composto, tra le altre, Here Comes the Sun, contenuta nel capolavoro dell’anno prima, Abbey Road. Ritornò per le registrazioni di Let It Be portandosi il turnista Billy Preston e pretendendo che nessun tour avrebbe seguitato il disco.
Torniamo a schitarrare come un tempo
Intendiamoci, Let It Be è ben lontano dall’essere considerato un bel disco. Registrato per la quasi totalità tra il 1968 e il 1969, poteva vantare qualcosa che i precedenti album non avevano più: l’immediatezza. Realizzato in presa diretta, senza sovrincisioni, senza strumenti elettronici come il mellotron che avevano caratterizzato il precedente biennio, Let It Be avrebbe dovuto sancire un ritorno alle origini, utile magari a risvegliare l’entusiasmo nel quartetto.
Tuttavia, l’atmosfera, come detto, fu ben diversa quando si entrò in sala di incisione. Lo si percepisce grazie alle due telecamere piazzate all’interno dello studio. Un disagio ben visibile già dagli sguardi livorosi che Lennon ed Harrison lanciano verso McCartney. L’idea di replicare il successo del video di Hey Jude si rivelò come la messa in mostra dei dissidi interni della band agli occhi del pubblico. Lo stesso pubblico che li vide in live sul tetto dellaApple qualche mese prima, e che si era introdotto durante le riprese del suddetto brano per cantare la coda finale di quattro minuti.
Tuttavia, laddove quell’immediatezza della presa diretta potrebbe sembrare il punto più interessante nelle registrazioni, la necessità di chiudere Let It Be per obblighi contrattuali, a scapito di una situazione interna già esposta, fa apparire l’opera come un cumulo di brani riempitivi utili ad accompagnare i due singoli di maggior successo: l’eponima Let It Be e la chiosa Get Back, portata già in live sul tetto della Apple e pubblicata nel 1969 con Don’t Let Me Down sul lato B. Proprio su quest’ultimo brano e sulla controversa The Long and Winding Road, altro capolavoro minore dell’album, ci fu un’accesa discussione con il produttore Phil Spector. Il folle genio che aveva portato al successo già i Beach Boys con Pet Sounds, decise di aggiungere un arrangiamento orchestrale per il brano che fece infuriare i quattro, eliminando, invece Don’t Let Me Down dalla versione definitiva.
Due singoli, tante canzoni…
Di certo, assieme ad Across the Universe – della quale David Bowie registrerà una cover per il suo Young Americans (1975) –, i brani citati avrebbero costituito lo zoccolo duro di un album, altrimenti, troppo altalenante. Two of Us, per esempio, si attesta come un pezzo chiaramente ispirato dai loro primi anni come portabandiera della British Invasion, con un duetto acustico di Lennon e McCartney, apparentemente ritrovati nell’armonia. Si scoprì, in seguito, che Lennon non scrisse realmente il brano – opera di McCartney e della moglie Linda – ma ne fu solo indicato come autore dalla Apple. Dig a Pony, altra composizione passabile scritta da Lennon, è, all’apparenza, un riempitivo che l’autore stesso ha definito «spazzatura»
“Lassù, a Liverpool, in uno scantinato, è scritto: «Qui sono nati i Beatles! Qui tutto è cominciato!». Se non lo sapete, si tratta di quattro scapigliati e canori giovanotti, che avevano la vostra stessa «aria di artista» ed ai quali la Regina d’Inghilterra non solo non ha turato la bocca, ma ha conferito un’alta onorificenza. “
Papa Giovanni Paolo I
Ben diversa è la potenza di Across the Universe, sebbene all’epoca divise la critica. Scritto da Lennon per essere pubblicato come singolo, fu accantonato in favore di Lady Madonna, scritta da Paul McCartney e cantata da Ringo Starr. Altrettanto magniloquente è I Me Mine, scritta e interpretata da George Harrison. Incisa nel giro di due anni e fortemente influenzata dall’India, vanta un’aggiunta di archi e cori che furono pretesi da Phil Spector.
La sempiterna title track, tuttavia, fa da spartiacque all’interno di una parte centrale non all’altezza di essa. Dig It, nata per effetto di una jam session piuttosto semplice, così come I’ve got a Feeling, hanno ancora quel sapore ruvido e rockeggiante dei primi anni, ma appaiono chiaramente come aggiunte solo per raggiungere i quaranta minuti, così come Maggie Mae, brano di appena quaranta secondi che fu inserito solo da Phil Spector in sostituzione della già citata Don’t Let Me Down. Va un po’ meglio con The One After 909, brano certamente più intenso, corredato da un duetto tra i due leader del sodalizio.
E arriviamo alla title track
E, allora, arriviamo a quella canzone. Let It Be, poetica e intensa. Un brano che esprime tutta la malinconia di cui è intrisa la storia degli ultimi Beatles. Un amore decennale che sta per finire, che sta per chiudere una delle pagine più rivoluzionarie della storia della musica e non. Un istante che conclude la rivoluzione. Un ultimo trittico di accordi suonato al piano che consegna i Beatles alla storia. La coda dell’album, altrettanto dignitosa con le già citate The Long and Winding Road e Get Back – intervallate da For You Blue – è solo la chiosa naturale di un disco che poggia principalmente sulla sua title track. Sulla sua malinconia.
Un brano che racchiude tutto, sin dal videoclip. Dai cori stanchi e svogliati di Lennon e Yoko; dagli assoli di Harrison scelti come fossero delle figurine e inseriti alternativamente nelle varie rimasterizzazioni uscite a cadenza quasi annuale tra il 1970 e oggi; dal cantato melodico di McCartney, con uno sguardo fisso a favore di camera che non riserva neppure un’occhiata ai suoi ormai ex-sodali. Un istante per entrare nella storia. Ma non della musica; nella storia del Novecento.
“Se i Beatles o gli anni Sessanta hanno avuto un messaggio, era questo: impara a nuotare. Punto. E una volta che hai imparato, mettiti a nuotare. La gente che è rimasta ancorata ai Beatles e al sogno degli anni Sessanta ha perso di vista l’orizzonte non appena i Beatles e gli anni Sessanta sono diventati l’orizzonte. Portarseli dietro tutta la vita sarebbe come portarsi dietro Glenn Miller e la seconda guerra mondiale. Con questo non voglio dire che non si possano ascoltare con piacere Glenn Miller o i Beatles, ma vivere dentro quel sogno significa scegliere la via del tramonto.“
John Lennon
La conquista dell’immortalità
Il fenomeno artistico-culturale meno pensabile del nostro Secolo: un gruppo di ragazzi che, con sette note, è finito sulla bocca di chiunque al pari dei politici e delle personalità più eminenti a loro coevi. Un settennio irripetibile. Perché nessuno, mai, potrà entrare così prepotentemente nel cuore della gente come fecero i Beatles. Nessuno, e tutti i presunti «sostituti» proposti negli anni – i Badfinger su tutti – non saranno mai all’altezza di competere con quel fenomeno.
Che li amiate o che li odiate, i Beatles rimarranno per sempre il metro con cui si dovrà comparare la musica del Novecento. L’esplosione del business, del marketing, del divismo. Coloro che, volenti o nolenti, hanno influenzato tutti quelli che sono venuti dopo. E, come nelle storie più intense e vere, coloro che hanno smesso abbastanza presto da poter rimanere nell’immaginario collettivo. Un istante solo per l’immortalità.
Con Motel Woodstock inauguriamo questa nuova rubrica nella quale ho intensione di condividere con voi alcuni di quei film che hanno caratterizzato i miei ultimi anni in radio, e, al contempo fatto vivere delle belle "storie di musica" attraverso dei veri e propri cult cinematografici. Un ragazzo cerca di riscattarsi durante i 'mitici' 3 giorni di Pace e Musica di Woodstock. Titolo Originale: Taking Woodstock - Nazione: U.S.A. - Anno […]
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